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linea di fuga verso il mare

martedì 8 luglio 2014

Storia: Le benedettine in Acquaviva delle Fonti

Acquaviva delle Fonti - 30 Giugno 2014 - ore: 19,30

- Aula Magna dell'Oratorio San Domenico -

 Evento - Presentazione libro:


Giuseppe Pietroforte

Il Monastero di Sant'Antonio Abate e la chiesa di San Benedetto

in Acquaviva delle Fonti - Storia e Arte

Acquaviva delle Fonti - 2014

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 Il Commento:

Il profilo storico-economico nella realtà monastica di Sant'Antonio Abate



Antonia Colamonico
(relatrice)





Ringrazio don Giuseppe Pietroforte per la bellissima pubblicazione, vera pietra d'angolo per la ricostruzione della Coscienza storica della nostra cittadina.
Egli con occhio vigile e discreto, sapendo di attraversare un sentiero consacrato, ha cercato di tracciare in uno scritto i perché e i come dell'eco informativo “monastero di Sant'Antonio abate” in Acquaviva delle Fonti:
  • L'eco è il segno visibile del passaggio storico di alcuni fatti vitali che si sono dissolti, lasciando solo disarticolati appigli informativi.
  • Quante volte passeggiando nei pressi della chiesa di San Benedetto abbiamo osservato alcune pietre incise o alcune statue in delle nicchie di palazzi!
  • Chissà quanti si saranno chiesti il perché e il come di tali presenze, prive di identità!
A questi molteplici perché e come lo storico cerca di dare una risposta, aprendo una finestra storiografica su uno spaccato di passato. Infatti a 100 anni dalla chiusura e vendita del Monastero di Sant'Antonio abate, don Peppino Pietroforte, partendo da esili tracce ha riportato alla luce una trama di realtà che si era sbiadita, tanto da entrare nello spazio dell'ignoto.

20 Luglio 1914 - 30 Giugno 2014
Solo un secolo!
100 anni sono circa 4 generazioni, cioè la sequenza di un bisnonno, un nonno, un padre e un figlio. In solo 4 passaggi generazionali si è persa memoria di tale antica realtà che aveva preso vita “forse” nel lontano 1575; non si possiede una data certa.
1575-1914 un periodo di 339 anni, circa 14 generazioni che hanno convissuto e relazionato con tale realtà monastica e che in soli 100 anni si è dissolta ai nostri occhi.
Riflettendo su tale “labilità della memoria” si può comprendere il valore culturale, sociale ed economico di una ricostruzione storiografica che si fa testimonianza di un modo vitale, di un abito mentale, di una serie di fatti che potrebbero tornare utili come casi sperimentati e collaudati di risposte al divenire della storia:
  • Il ruolo della memoria è nel suo farsi codice vitale, per saper rispondere alla vita!

Perché un monastero in una cittadina rigogliosa di acque?
La risposta è nel concetto di Oasi.
Creare un'oasi di serenità come rifugio per quelle figlie e nipoti che per motivi di primogenitura non erano destinate al matrimonio, ma alla clausura.
Chi non ricorda la lettura manzoniana di Gertrude, monaca di Monza, dei capitoli IX e X de I Promessi Sposi (1827) o la “Storia di una capinera” di G Verga (1871), portata sullo schermo dal grande Franco Zeffirelli (1993).
Edificare un centro di accoglienza per gentildonne sembrerebbe, dal carteggio riscoperto, sia stata idea di un nobile concittadino Cristosalvo dei Cristoforo che nel 1575 per testamento lasciò erede fiduciaria dei suoi beni l'Università (de universi cives), cioè il Comune di Acquaviva, con l'obbligo di fondare un “monastero di Donne Monache sotto il titolo di S. Antonio Abate dell'Ordine Cistercense e con la regola di S. Benedetto”.
  • Chi erano e sono i Cistercensi?
L'ordine cistercense ebbe origine in Francia nel 1098 nell'Abbazia di Cîteaux da una riforma dell'ordine benedettino, per ripristinare la preghiera e il lavoro, ritornando alla povertà del suo fondatore, San Benedetto. Il ramo femminile, fu fondato qualche anno dopo nel 1125 sempre in Francia a Tart, a circa 10 km a nord di Cîteaux, da alcune donne devote, decise ad imitare l’austero esempio dei monaci cistercensi.
Essi si diffusero in tutta Europa, soprattutto grazie all’opera di San Bernardo di Chiaravalle. Alternando la preghiera al lavoro crearono delle vere comunità economiche, furono grandi bonificatori e colonizzatori: prosciugando, dissodando, impiantando nuove colture, incrementando e potenziando l’economia agricola nei luoghi delle loro abbazie; ad esempio si deve a loro l'allevamento dei bovini. Essi introdussero lo stile Gotico in Italia.
L'ordine fu soppresso durante la Rivoluzione Francese. Per poi riprendere vigore come movimento trappista sotto Pio VII, all'indomani della caduta di Napoleone (1815) per essere legittimati da Leone XIII nell'ordine dei cistercensi riformati trappisti (1891):
  • I cistercensi sono stati un esempio di comunità economicamente auto-propulsiva per il benessere di un territorio!
Da un'idea di un laico acquavivese che mise a disposizione i suoi averi per un fine nobile, nacque intorno al 1580 il primo cenobio femminile, seguito di lì a poco dalle clarisse (1621) e dalle francescane-cappuccine (1629, le più povere); senza scordare quelli maschili tra cui il convento di San Domenico su cui don Peppino ha scritto l'altro bellissimo volume.
Non si conosce la data di costruzione del cenobio delle benedettine e neanche l'anno del loro arrivo in Acquaviva, ma certamente al finanziamento del complesso architettonico, cooperarono diverse famiglie locali e una in particolare, i conti di Conversano, infatti dalla ricostruzione cronologica sulle badesse, risulta che la prima fondatrice e badessa sino al 1602 sia stata la reverenda Madre donna Agata Acquaviva d'Aragona dei Conti di Conversano:
  • una delle sette serenissime grandi casate del regno di Napoli, a cui lo stesso re Ferdinando I concesse il 30 aprile 1479 di aggiungere al nome l'appellativo "d'Aragona".
Per comprendere le logiche che spinsero gli uomini del tempo a tale scelta, necessita indossare lo sguardo-lente di quel particolare periodo storico.
Per noi moderni l'idea di pilotare le vite delle figlie, inculcando e imponendo loro la clausura al servizio di Dio, può essere motivo di scandalo, venendo meno il rispetto della libertà di coscienza che richiede l'autonomia nella scelta, motivata da una vocazione, matura e consapevole. Ma in quel momento storico l'idea egemone era quella di dinastia e i figli erano solo accessori per il lustro del casato. La condizione femminile, poi, era al servizio del padre-padrone, marito-padrone, fratello e figlio-padrone, essendo una società maschilista.
Il matrimonio era un contratto stipulato tra due famiglie per motivi di interesse, senza alcuna attenzione alle aspettative degli sposi a cui toccava solo ubbidire:
  • lo stesso concetto di amore era subordinato a quello di interesse economico della famiglia; ai due coniugi era chiesto semplicemente di sopportare la volontà di Dio, letto a sua volta come un Dio-padrone.
Era impossibile per una donna in tale realtà affermare la personale indipendenza, inoltre le proprietà non erano divisibili e solo il primogenito, maschio, ereditava il titolo con il feudo e il palazzo.
Ogni nucleo famigliare aveva una sovrabbondanza di figli e figlie (dagli 8 ai 12 per coppia); alcuni nascevano per il matrimonio, altri per il clero, altri per la carriera militare. Naturalmente essendo figli di principi o di conti conservavano i privilegi di casta ed erano sempre trattati da aristocratici.
Lasciare una figlia, non nata per il matrimonio, alla mercé di un fratello-padrone non sempre era cosa raccomandabile e i padri come alternativa, dietro pagamento di una retta o di un lascito (nel nostro caso 350 ducati) preferivano chiudere le ragazze in un ambiente protetto che dava loro rispettabilità e autonomia economica e culturale:
  • Spesso erano le stesse ragazze che per svincolarsi da matrimoni combinati, non graditi, preferivano vestire l'abito monacale, un esempio famoso è quello di Santa Chiara.
Alle donne non era concesso l'ozio mentale in cui coltivare il pensiero. Spesso era vietato loro anche il semplice imparare a leggere e a scrivere. L'essere monaca, invece, implicava lo studio con:
  • l'esercizio del canto, la contemplazione teologico-filosofica, la musica, la poesia, oltre al ricamo e alla preghiera.
  • La giornata era organizzata in una successione sequenziale di ore e azioni che la rendevano ordinata e laboriosa, oltre che contemplativa.
In data 1 febbraio 1611 il perito regio Virgilio Marino, circa Acquaviva, scriveva:
vi è ancora un monastero di monache benedettine... 40 monache velate, 11 novizie, 3 serve et viveno comodamente delle loro entrate, dove si chiudeno ancora donne forasterie con dote almeno di 350 ducati, … lo loro luogo sta quasi nel mezzo della terra, posto in isola di comoda abitazione, con giardino, dove ancora si have da fabbricare...” (pag. 25)
Via, via che aumentava il numero delle monache, cresceva il patrimonio e l'influenza economica e caritatevole del monastero, tanto che nel 1664 Carlo de Mari prendendo possesso della città, volle, come primo atto, salutare le reverende monache che erano in numero di 82, su una popolazione di 8.000 anime e 1.527 fuochi (nuclei familiari).

Per avere un'idea dell'immenso patrimonio si può risalire al 2° volume del Catasto Onciario di Acquaviva del 1751 in cui la lista dei beni e delle rendite, elencati è di ben 34 pagine manoscritte:
  • Il monastero possedeva, solo in agro di Acquaviva, 2 masserie, Spagnolo e La Tilla, 2 cocevole (orti), 17 parchi macchiosi, 3 annicchiariche (stalle), 27 terreni seminatoriali per un'estensione di oltre 140 vignali, 6 chiusure d'alberi d'olive, 33 vigne... 1 cortile e 2 lamie.
  • In città possedeva oltre all'immobile del monastero con la chiesa, 2 molini, 1 forno, 7 botteghe, 24 case, 5 sottani e 1 stalla.
  • Gli animali erano 3 mule, 2 giumente, 42 vacche, 290 pecore, 162 capre, 16 bovi ... e 20 scrofe. (pag. 52)
Ogni passaggio di beni era registrato in un atto notarile che vidimato dal notaio del momento, di volta in volta, fissava le quote, i fitti, i pesi e i procedimenti in caso di morosità. Non mancarono contenziosi e le badesse erano vere donne di affari che insieme alla preghiera, alla carità, stipulavano contratti di gestione, prestando anche soldi con interessi al 9% e al 10%, anticipando le future banche:
  • Tuttavia, nonostante tutta questa organizzazione, molti erano coloro che non estinguevano i debiti o non pagavano le pigioni stipulate e spesso si ricorse alle autorità civili.
All'interno del cenobio esistevano i ceti sociali, sin dalla stesura della regola i cistercensi distinsero i monaci o monache, figli delle classi aristocratiche e benestanti, dai conversi o converse, figli dei popolani, con mansioni e spazi diversi, anche nelle sepolture. In una società statica e rigida che non aveva ancora sviluppato il concetto di democrazia, tutti erano legati al ceto di nascita:
  • Le monache o coriste erano dedite alla preparazione delle celebrazioni eucaristiche, alla vita contemplativa e al coordinamento dei vari laboratori, mentre le converse alle pulizie degli ambienti, alla cucina, alla spesa.
Le più ricche potevano avere una serva personale ed erano queste a tessere le ragnatele dei rapporti fuori/dentro la clausura, tanto che nella relazione del 1852, monsignore Giandomenico Falcone dichiarava di aver estromesso dal monastero tutte le serve per richiamare al rigore della clausura le monache stesse, ripristinando le grate e la vita comune.
Il declino del monastero iniziò con la politica del Catasto voluta dai sovrani illuminati nella II metà del 1700 che fece da detonatore alle rivoluzioni francese (1789) e partenopea (1799).
Il riordino dei registri catastali servì da scusa ai Sovrani per applicare una tassazione aggiornata e capillare, in grado di far affluire maggiore liquidità nelle casse vuote degli stati, vessati da una burocrazia sempre più costosa e da un'economia feudale obsoleta che richiedeva investimenti in infrastrutture:
  • Siamo nel momento del salto storico da sistema agricolo a sistema industriale, il passaggio richiedeva uno stato moderno, liberale ad economia di mercato.
Con l'applicazione delle tassazioni alle proprietà ecclesiali, iniziò un periodo di crisi economica per il monastero. Negli anni 1763-1765 le badesse si indebitarono tanto da vendere alcune proprietà; è riportata la cessione di alcuni vigneti al sacerdote Francesco Posa nel 1767 che richiedeva un pagamento arretrato.

Da un rogito notarile del 22 maggio 1763 si legge dell'apertura di una causa presso la Regia Corte contro il catasto da parte delle differenti realtà monastiche e civili di Acquaviva per ottenere una riduzione d'imposta; fu incaricato il principe de Mari di seguire a Napoli la causa, coadiuvato dal sindaco di Acquaviva. Anche le calamità naturali contribuirono all'impoverimento:
  • un incendio nella notte tra il 9 e il 10 settembre 1812, i moti carbonari del 1821 che aumentarono la pressione fiscale per sostenere il peso della guerra e, infine, anche un terremoto il 6 dicembre 1857.
Il sistema feudale era sì povero, ma generoso; la miseria per le popolazioni di fatto si concretizzò solo con il Regno Italico, quando la rivalità tra I Savoia e il Vaticano portò alla confisca dei beni ecclesiali, alla soppressione degli ordini religiosi e alla chiusura delle abazie con decreto legge del 17 febbraio 1861.
Per comprender il bottino di guerra fatto dai liberali a danno della Chiesa e del Regno di Napoli, è bene ricordare che il 28 settembre 1859, a Palazzo Loup, antica residenza dell’omonima famiglia che si trova a Loiano, sull’Appennino bolognese, fu deciso di adottare la Lira come moneta unica per il futuro Regno d’Italia. All’incontro segreto parteciparono tra gli altri Bettino Ricasoli, Carlo Luigi Farini, Marco Minghetti (futuri ministri della Destra Storica), Rodolfo Audinot (deputato dello Stato Pontificio, poi con l'Unità d'Italia deputato e senatore del regno) e Leonetto Cipriani (senatore). Insieme decisero anche l'abolizione delle barriere doganali per la creazione del mercato unico:
  • Un Ducato venne fissato a 4 lire e 25 centesimi. Il salario medio giornaliero degli operai specializzati (es. settore tessile) intorno al 1861 oscillava fra 1,20 e 1,50 £. Il salario annuo era di circa £ 390.
  • 350 ducati tradotti in lire erano all'incirca 1.487£ - 4 anni circa di salario di un operaio - se si considera che la quota è da riportare al 1611, allora si può comprendere il valore accumulato per ogni monaca dall'abazia.
La Chiesa di fatto possedeva nel 1700 solo in Italia circa i 2/3 della proprietà terriera, era uno uno stato nello stato, per cui i sovrani e i governi europei poco tolleravano, in nome del liberismo economico, una presenza così invasiva del clero. Inoltre tanta abbondanza di beni mise in moto le ingordigie del ceto borghese che accarezzava i possibili futuri guadagni in caso di vendite:
  • Da un punto di vista logico lo scontro fu inevitabile e la Breccia di porta Pia del 1870 segnò lo strappo nel dialogo stato-chiesa, ricucito solo nel 1929 con il Concordato.
Nell'idea del legislatore con l'abolizione degli ordini c'era l'intenzione di estromettere i religiosi; ma, dopo una defenestrazione controversa, nel maggio 1866, per adibire il nostro monastero ad alloggio delle truppe dei volontari (i garibaldini), le monache fecero ritorno nel monastero e fu concesso loro di potervi morire in pace, proibendo solo di accettare educande e novizie.
Dal 1869 al 1910 si aprì un ricco carteggio di istanze in cui il Comune rivendicò la cessione della proprietà del monastero, ottenuta solo il 22 dicembre 1910.
Nel 1911 ci fu la cessione della Chiesa di San Benedetto con i locali di sacrestia annessi, al vescovo di Acquaviva con l'obbligo di tenere aperta la chiesa al culto:
  • L'ultima religiosa si spense nel 1911.
L'immobile fu diviso in in quattro lotti e venduto all'asta il 20 luglio 1914, con un ricavo di £ 37.881,82 centesimi (circa 97 anni di lavoro di un operaio).
Certo quello che emerge dalla ricchezza dei documenti ritrovati e riportati nel volume da Don Giuseppe Pietroforte, è la necessità di una riscrittura della storia che porga l'altro punto di vista, quello dei vinti, per fare emergere le retoriche di facciata di tanta prosopopea garibaldina.

Acquaviva delle Fonti, 30 Giugno 2014

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