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Boston, USA

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linea di fuga verso il mare

sabato 2 luglio 2011

Il quanto storico, la finestra ed io.





"Il lavoro della ragione non è affatto quello di inventare concatenazioni, relazioni... è al contrario di fabbricare il neutro, l’indifferente, di smagnetizzare le costellazioni, le configurazioni inseparabili per farne elementi erratici votati poi a trovare la loro causa o a vagare a caso. Rompere il ciclo incessante delle apparenze. Il caso, cioè la possibilità stessa della indeterminazione degli elementi, della loro rispettiva indifferenza e infine della loro libertà, risulta da questo smantellamento. In breve non c'è mai un caso se non quello che noi abbiamo artificialmente prodotto mediante la liquidazione delle forme. Il caso non è mai esistito, soprattutto non nello stato originario che noi gli conferiamo. J. Baudrillard


Biostoricamente parlando, il 1992 segna il capolinea della linearità di lettura, tale data va presa con tutti i riguardi d'espediente mnemotecnico, direbbe B. Croce, cioè solo una comodità, un’azione artificiosa per meglio focalizzare i fatti e localizzarli in una nicchia spazio-temporale, in cui la nuova trama emergendo dal vuoto si fa “ordito” per la tessitura di una pagina storica "voleva definire la nicchia storica da cui emerge la cresta degli eventi che fa da orlo al vuoto di spugna.".

Nessun evento è un isolato spazio-temporale, meglio un accadimento dovuto ad una dea bendata che si diverte a sconquassare le storie private e comuni. Ogni presa di realtà spazio-temporale è il risultato di un radicarsi (mettere radici) di situazioni che si fanno bacino di coltura di quel quid-seme a cui ogni osservatore-storico dà un nome, una data, un luogo che gli fanno assumere la forma topologica di oggetto.

Nell'agosto 1992, isolai il “quanto storico” come il “promotore di vita”, vi arrivai per caso, ero stata a Milano per la correzione delle bozze del mio saggio “Fatto Tempo Spazio” e padre Mario Reguzzoni, l'editore, mi disse che il mio lavoro era molto chiaro sino ad un certo punto, poi si creava un salto cognitivo che lo rendeva incoerente, come una crepa d'illogicità che rendeva confusa la prosecuzione della lettura.

Solitamente quando un altro sottolinea un punto critico di una tesi, lo scrittore sa già che lì c'è una discrepanza, un eco non emerso, un detto non codificato e circoscritto che nella mente riecheggia con movimenti quantistici che non hanno dato ancora un luogo, un nome ad una particella di reale: a me succede spesso che quando mi si fa notare qualcosa su quello che sto scrivendo, quel qualcosa è la sacca di vuoto mentale su cui sto silenziosamente confabulando.

Tornata a casa rivisitai, mentalmente, tutto il mio scritto. Ripercorsi in lungo e in largo tutti i frammenti di quel puzzle che creava la nuova “architettura a finestra del sapere storiografico” e ogni volta il mio occhio-lente mentale si fermava nello stesso punto: il capitolo in cui introducevo l'eco storico.

La stesura del testo era stata un'elaborazione ad occhio multiplo. Avendo già messo a fuoco la quinta dimensione di lettura con il processo dello sdoppiamento delle linee del pensiero e riuscivo a visualizzare dei costrutti multipli, come in Le filastrocche di Spazioliberina, che mi permettevano di lavorare in simultaneità su più registri di memoria, come in un ricamo del sapere.

Avevo, infatti, scritto Fatto Tempo Spazio utilizzando tre quaderni che corrispondevano alle tre parti del lavoro:

  1. L'interazione tra storia-vita e storiografia-lettura come un gioco di disordine/ordine.

  2. La rete storica e la finestra storiografica come rapporto osservato-osservatore.

  3. L'ipotesi di una struttura chiave di periodizzazione ad albero del sapere storiografico.

L'aspetto interessante del modo di procedere nell'elaborazione del testo fu che non seguii la successione temporale, scrivendo un capitolo dopo l'altro, ma con i tre quaderni procedevo in parallelo sui tre piani e li concatenavo utilizzando il “vuoto di parola” come elemento costitutivo della stesura, fatta con voli di visioni analogiche (come spiego nella premessa) che si annodavano, sui 3 piani, come echi di parole-chiavi che mi permettevano di spaziare dalle poesie, alle narrazioni, alle visualizzazioni, alle spiegazioni... (Per comprendere meglio il ruolo del vuoto di significato nella stesura di un tessuto concettuale, consiglio la lettura delle mie poesie “Il filo” in cui introducono il silenzio di parola come parte inespressa interna allo stesso intreccio narrativo.)


In quel procedere a ragnatela avevo disegnato sia la “lente cognitiva a finestra”, che mi permetteva di dare una veste spaziale all'organizzazione del sapere storiografico, e sia la “struttura a rete-campi degli eventi storici” che, assumendo una conformazione a nodi-legami-maglie, si aprivano a molteplici ordini interpretativi, stratificati.

Lo stesso “nodo-evento” poteva aprirsi nella lettura, infatti, ad una complessità d'indirizzi interpretativi ed ognuno era una particolare inclinazione o curvatura della cresta d'evento, con cui veniva superata la mappatura a linea retta del Cellario e l'organizzazione a linee parallele delle discipline.

Il punto critico del mio ragionamento, in quella fase, fu il non aver definito il luogo e il tempo in cui si strappa il vuoto storico e prende corpo la realtà, cioè quel passaggio dal “non” evento, a ”ora” del fatto, come quel “ponte cognitivo” che rende reale un “quid” vitale facendogli assumere la “connotazione storica”.

Ricordo, fu di notte che vidi, con un lampo-luce, il “quanto” che dà il la alla realtà. Il quanto da “cosa” bio-fisica si fece “cosa” storica, come il processo d'emergenza che traccia una strada significante tra: campo dell'ignoto-campo del fatto-campo del detto.

In quell'abbaglio notturno visualizzai la differenza tra un “prima”, un “dopo” e un tempo 0 d'evento come “lacerazione dello spaziotempo e presa di posizione di un quid vitale”.


La cresta d'evento emerge da un nulla di fatto, che oggi chiamo vuoto quantistico, che si veste di realtà assumendo un tempo, uno luogo e un detto: è una gemmazione, un atto di nascita che si manifesta all'occhio osservatore, il quale datando, posizionando e definendo, può trasformare quel “fatto” in un segno-dato storiografico.

Il nodo del legame, piano di realtà-piano dell'immaginato, passa per un'appropriazione e trasposizione del fatto storico che da “quid” non definito, si trasformava in un eco-evento conosciuto che lo stesso osservatore storico, come un'ostetrica, aiuta a fargli assumere la forma di realtà oggettiva: lo stesso osservatore-agente storico cuce la veste, stratificata, di realtà della vita, come in un ricamo dai fili colorati.

Grazie a quella intuizione di quel quasi nulla ho potuto tracciare la struttura topologica di spugna storica/spugna del pensiero, come l'una il rovescio dell'altra.

Lo stesso significato di realtà vincolato al legame osservato-osservatore si poneva come il terzo nodo del legame, l'osservazione, che poteva assumere una molteplicità di forme frattali, in relazione alle ampiezze e mutevolezze dei legami osservato-osservatore.

La mia scoperta dell'intima connessione “letto-lettore-lettura” fu così scioccante che io stessa mi spaventai, poiché andava ad intaccare tutta l'architettura del sapere storiografico e non solo:

  • Il tempo storico è un tempo zero, essendo la storia non una proiezione di tempi ma una de-formazione di spazi, il “tempo lineare” degli storici, entra solo nel gioco di lettura e si pone come strumento o criterio di misura dei mutamenti che segnano le trasformazioni spaziotemporali (cronotopo di A. Einstein) .

Ricordo che in quel periodo seguivo i corsi del gruppo di ricerca, presieduto da I. Mattozzi, per la sperimentazione dei nuovi programmi di storia, e feci notare allo stesso come fosse un errore concettuale organizzare la storia in una semplice successione di tempi lineari, dato che ogni evento è un'apertura di spazio, quindi un “tempo frattale”.

Lui, arroccato nei suoi schemi mentali, tra l'altro non conosceva ancora la teoria del Caos, non mi capì e fece terra bruciata alla mia architettura storiografica a finestre, definendola inutile e caotica.

Smisi così di rivolgermi agli storici e iniziai a confrontarmi con i fisici e i biologi; fu il professore di fisica-chimica dell'università di Firenze, Paolo Manzelli, che per primo, nel 2004 avvallò la mia ricerca, a cui per distinguerla dalla vecchia architettura, avevo dato il nome di Biostoria.

Il silenzio che mi fu dato, si è rivelato la più grande risorsa della mia ricerca; da sola disegnavo, tracciavo, dimostravo il nuovo paradigma dell'occhio-lente eco-biostorico come una bussola cognitiva che costruiva la struttura a spugna di realtà e di pensiero.

L'azione del ricercare è come un fuoco interiore che arde e in tale ardore si crogiola, come una pepita d'oro, la conoscenza, assumendo la forma di polvere concettuale: ero il fabbro nella fonderia della storia, avevo quantizzato tutto il sapere in tante “scaglie di vita” che si prestavano ad essere ordinate e organizzate in una molteplicità di forme-oggetti storici. Trovavo le parole, disegnavo le carte, isolavo le tesi e le dimostrazioni, mi costruivo anche le contro-tesi e testavo il tutto nelle classi con gli alunni, poi verificavo gli appresi e i concetti e limavo, ridefinivo... monitorando le menti-alunni che si strutturavano a frattale con aperture logiche continue. Così tessendo e sfilando la nuova architettura da scheletro vuoto di finestra-nodo-rete, prendeva spessore-corpo a frattale spugnoso con nicchie di pieni/vuoti che si aprivano a geografie complesse.


Quando tutto aveva assunto una concretezza ideativa e visiva, inizia a piccole dosi a divulgare il mio castello “Biostoria”.

Gli anni di solitudine mi hanno dato il gusto della libertà, ma questa era letta da alcuni come una mia chiusura relazionale, la cosa ancora mi diverte, poiché l'organizzazione che è scaturita da una tale topologia a dentro/fuori della storia/pensiero è così complessa, dinamica, interdipendente e plastica che necessita una costante apertura logica che solo una mente aliena al pregiudizio può visualizzare.

La mia costruzione diventa così come una “cartina tornasole” sullo stato di salute cognitiva del mio destinatario che dove essere mentalmente attrezzato per vedere i gradi di enorme semplicità, celati nella complessità sistemica del nuovo paradigma.

Il professore Angelo Rovetta dell'O.P.P.I.di Milano, colui che mi ha scoperta, mi disse quando vide per primo la bozza di Fatto Tempo Spazio: Tu non ti rendi conto di quello che hai combinato con questa finestra, ci vorranno almeno 20 anni perché la gente capisca la grande apertura logica che introduce.

È stato profetico, i 20 anni sono passati e oggi è tutto un fiorire di “finestre e quanti, occhi di lettura e bussole cognitive”.

Antonia Colamonico (biostorica)


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