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domenica 16 agosto 2009

la spinta democratica del ’68: chiacchierata biostorica







di Antonia Colamonico



(Nardo 2003. Antonia Colamonico e Edgar Morin. Ideatori del paradigma biostorico come dialogica della vita.)


Si sta sparlando molto del ‘68 , quasi, con l’intendo d’esorcizzarlo, poiché a distanza di 40 anni fa ancora paura.

  • Cosa fu realmente il ’68?

La consapevolezza collettiva di una generazione che decise d’appropriarsi della propria libertà di coscienza.


Solo chi l’ha vissuto può raccontare il soffio di libertà che aleggiava negli incontri pomeridiani dei comitati studenteschi che si riunivano negli oratori delle chiese, divenuti i luoghi della democrazia.


Esistono due volti del ’68, come le due facce di una stessa medaglia: la faccia democratica e quella demagoga d’impronta autoritaria.


Biostoricamente parlando ogni processo storico non può essere letto come una dinamica uni-dimensionale, esiste sempre un’ambivalenza di tendenza nella storia, poiché ogni evento è il risultato di una scelta che chiude ad una possibilità ed apre ad una nuova, per cui se si guarda ad esso come ad un processo unico a spugna, il pieno/vuoto delle creste si costruiscono insieme, in quanto ogni edificazione vitale ha le sue zone d’ombra/luce che s’accompagnano come l’altra faccia di sé.

  • Quali furono i due volti del ’68?

Il volto partecipativo dei nati negli anni tra il 1943-1953 che avevano interiorizzato il valore morale della ricostruzione postbellica. E il tentativo d’accaparramento di tale mobilità sociale verso strategie di rovesciamento dell’ordine costituito; infatti si può parlare di due fasi del ’68: la prima di movimento spontaneo (anni ‘67-‘’70) e la seconda il tentativo di lottizzazione delle coscienze verso gli estremismi rivoluzionari di destra/sinistra (anni ’70).


I sessantottini erano nati negli anni della miseria, anni in cui i padri s’imposero l’urgenza morale della ricostruzione, vista come boom industriale e boom culturale. Fu quello il momento storico del rimpasto territoriale con la migrazione sud-nord e della presa di coscienza che la dignità della persona passa attraverso la cultura e il lavoro.


I figli avevano interiorizzato tali valori per cui essi erano usciti da una visione provinciale e quindi circoscritta, d’appartenenza locale e classista ed erano consapevoli che solo attraverso l’appropriazione del diritto al lavoro e del diritto alla conoscenza si potesse fare il salto di qualità.


Il lavoro come il cardine intorno a cui elaborare la vera democrazia fu già dalla costituzione sancito come l’elemento distintivo di una società civile e con questo il diritto allo studio, visto come strumento d’emancipazione dalle logiche del potere.

Su questi due nodi esplose il ’68, dapprima come richiesta d’apertura degli atenei ai figli della classe operaia e poi come emancipazione della donna dallo stato di cattività in cui da secoli era tenuta.


Sul lavoro e sullo studio fu attuata, oggi diremmo, la metaposizione, per cui si analizzò il lavoro con il diritto che ne consegue e si svelarono i lati bui dello sfruttamento della classe operaia, tanto da giungere al più grande documento della storia democratica: lo statuto dei lavoratori, che poi sistematicamente è stato scardinato con il consenso degli stessi sindacati di massa, asserviti alle logiche clientelari di partito. Ed oggi assistiamo allo sfascio dell’idea stessa di lavoro per cui i giovani sono i veri poveri, eternamente precari. Ma a guardar bene la precarietà è la condizione dell’oppressione intellettuale e morale che fa del nato, biologicamente libero, un socialmente servo.


Si entrò, in quegli anni, nelle maglie della cultura e si iniziò a fare uno studio capillare sulle dinamiche della logica tanto da sviluppare una capacità di tesi e di antitesi, d’analisi e di sintesi dei discorsi, da fare paura. I sessantottini svilupparono in quelle assemblee una tale capacità ad argomentare da essere in grado di tenere testa alla classe genitoriale che educata in età fascista ne aveva conservato i modi e le sembianze mentali.


Ricordo l’impegno era imparare a smontare un discorso, a fare, oggi diremmo, la destrutturazione del linguaggio, per svuotare di senso il discorso autoritario. Ricordo ancora lo studio sui modi del come argomentare, partendo dai propri genitori, per rivendicare le piccole richieste delle piccole libertà che erano per noi adolescenti le più grandi conquiste della storia. Ricordo come avevamo una parola d’ordine:

  • usare la forza delle parole per rivendicare il diritto alla minigonna, ai blu jeans, all’accesso all’università, ad andare fuori regione per esercitare il diritto al lavoro, e poi le grandi battaglie come quella sui manicomi, sul divorzio.


Ma se questo è stato un volto bello del ’68 c’è stato anche il risvolto della medaglia.


Questa ventata collettiva di presa di coscienza faceva paura alle lobby di potere partitico ed economico, nonché istituzionali. Tra la rete di rivendicazioni intorno alla dignità della persona, si annodarono le trame oscure di chi, avendo paura della democrazia, voleva imbrigliare il movimento e piegarlo verso il rovesciamento dello stato democratico.


In tale gioco entrano in scena i demagoghi della cultura, i gran maestri della storia che cercarono di piegare le spinte libertarie o verso la sinistra rivoluzionaria di stampo tardo-romantico, o verso un revival tardo-fascista o verso un mai domato assolutismo, tardo-medievale.


Tra il gioco oscuro dei servizi segreti deviati, dei terroristi rossi e neri, il movimento fu liquidato nella violenza degli anni di piombo. Da questo momento l’etichetta "sessantottino" assunse una connotazione negativa, di esaltazione generazionale, di mancanza di maturità.


Ma a guardar bene il ’68 fu un vento di libertà che dilago nel mondo, cambiando in modo irreversibile la mente umana, potremmo dire usando una terminologia più appropriata, fu un autentico salto di paradigma.

  • A posteriori cosa è mancato alla generazione del ’68?

L’implosione del movimento fu la diretta conseguenza di una mancata risposta della nicchia-campo storico: la classe adulta vide nella capacità logica dei figli non un fattore di civiltà, ma uno di maleducazione e così facendo li privarono di quel appoggio morale necessario per rafforzare e consolidare le conquiste raggiunte, collaborando insieme.


Privati della risposta democratica del campo, i giovani, data la loro fisiologica fragilità emotiva, o furono piegati dal sistema conservatore con la logica della carota o emarginati, con la logica del bastone, poiché definiti sciocchi idealisti.


Molti per le competenze sviluppate entrarono nei quadri dirigenziali e molti furono tenuti al bordo della società, tacciati d'infantilismo. I primi sono entrati nella logica consumistica, i secondi hanno tenuto, nel silenzio, vive le ceneri della democrazia.


I primi hanno fatto del tempo lavoro l’oggetto del culto in grado di poter soddisfare le voglie infinite. Gli altri sono divenuti le sentinelle nella notte, sapendo che una volta avviato un processo non può essere più fermato.


Esiste il tempo pieno della storia che esplode da un tempo vuoto di storia:

  • è nel vuoto che si creano quelle variazioni minime in grado di innescare il processo farfalla!

Oggi di fronte allo sfascio generazionale dei nuovi nati, si stanno creando le premesse per un nuovo salto paradigmatico che riproporrà la dignità della persona come diritto dialogico individuo/campo… conoscenza/lavoro… finito/infinito… essere/avere… bene/male… io/tu/dio.


Ma perché la dialogica, intesa come la coesistenza pacifica di due logiche che dialogando implementano la vita, non si trasformi in dialettica che pone il potere di un discorso su di un altro, necessita fare tesoro degli errori passati e non farsi ingabbiare dalle logiche violente che scatenano risposte altrettanto violente.







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